Urban Art: un museo sempre aperto


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  • Milano Vicolo P. Manzoni zona Brera - 1998 - Copyright Antonio Cereda

Il Coronavirus o Covid-19, ha costretto alla chiusura di vari luoghi in cui si svolge abitualmente la nostra vita e tra questi i musei. Il divieto è stato, però, l’occasione per riflettere che le opere d’arte non sono collocate soltanto in importanti edifici appositamente dedicati ad accoglierle, ma anche negli spazi aperti delle città. Non ci riferiamo soltanto alle statue o alle nuove realizzazioni degli architetti di grido, ma a quella espressione artistica raccolta sotto il nome di Street Art o di Urban Art.

Apparsa in alcune metropoli degli Stati Uniti, tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, essa ha rappresentato in Italia, in una prima fase, l’evoluzione dei graffiti e delle scritte murali che avevano riempito le nostre città negli anni della contestazione.  Come messo in rilievo nel bel libro “Le scritte murali a Roma” di G.Cutilli, R.Filippi e R.Petrucci, apparso nel 1974 con un’introduzione di Enrico Crispolti, questi erano realizzati a “carattere individuale ed evasivo” o “per una comunicazione organizzata, nella quale le scritte e i segni fanno politica”.

Fondendo le due motivazioni, la Urban Art è stata, all’inizio, espressione di atti di “individualismo politico” o di gruppi ristretti di giovani (la crew) che si limitavano a scrivere il loro nome (la tag) con un lettering innovativo sui muri delle città o sulle carrozze dei treni, violando il divieto di imbrattarli e quindi realizzando, con questo, un’azione di contestazione o “rivolta”. Al suo primo apparire, questa nuova forma di espressione suscitò reazioni di fastidio tra i cittadini, perché si mescolava, ma accade ancora adesso, a puri gesti vandalici, privi di qualsiasi contenuto artistico.

Per Milano, ma anche per altre città, il Centro Sociale Leoncavallo  ha rappresentato l’incubatore delle successive evoluzioni della Urban Art fino al “Muralismo”. In questo contesto Davide Atomo Tinelli, writer e tre volte consigliere comunale milanese, favorì il rapporto con le istituzioni e il dialogo che rese “legale” l’Urban Art. Questo processo si realizzò anche grazie alla benedizione di Vittorio Sgarbi che la definì arte a tutti gli effetti e alla mostra del PAC di Milano, Street Art Sweet Art, nell’aprile del 2007. Nel 2017 infine, il Comune di Milano ha contribuito alla nascita del MAUA, il Museo di Arte Urbana Aumentata, che raccoglie, virtualmente, parte delle opere realizzate in città e visibili attraverso l’app Bepart.

Oggi la Urban Art, ma diremmo meglio, la Urban Land Art, perché come quest’ultima mira concretamente a modificare il paesaggio urbano e ne subisce i cambiamenti urbanistici e le trasformazioni degli agenti naturali, è giunta a un momento di maturazione. Si tratta di un’espressione che ha tra i suoi esponenti artisti non più giovanissimi, spesso con studi alle spalle e che hanno sperimentato varie tecniche: non più solo bombolette spray ma anche rulli, pennelli vernici e altri materiali. Tra i committenti ci sono Comuni, istituzioni pubbliche e private che mettono a disposizione luoghi in cui essi possono esprimersi liberamente: muri delle massicciate ferroviarie ma anche pareti e facciate di case, superfici di infrastrutture pubbliche e impianti sportivi.

Ma la Urban Land Art, proprio perché collocata su un territorio vasto, non potrebbe essere conosciuta senza l’azione di fotografi che da anni testimoniano la sua evoluzione, raccogliendo immagini di opere in molti casi poi scomparse perché nascoste da altre o lavate dalla pioggia.  La mostra “Street Art Segno dei tempi”, a cura di Debora Ferrari e Luca Traini, inaugurata a Varese l’11 febbraio, ha presentato il lavoro di Antonio Cereda (Milano, 1942) che dal 1985 fotografa e testimonia, valorizzandola, questa disciplina.

Questo fotografo, noto anche per i reportage fotografici dei suoi viaggi in tutto il mondo, non si limita a catalogare i murales che incontra, ma li inquadra nel contesto in cui sono collocati, in modo da mostrare quale ruolo hanno nella modifica del paesaggio che appare all’osservatore, aggiungendo vita e colore a luoghi che altrimenti ne sarebbero privi. Nella sua attività Cereda, partendo dall’Ortica, il quartiere di Milano in cui vive e che raccoglie molti interventi di Urban Land Art, percorre a piedi i quartieri della città in cerca di nuovi interventi e nuovi scorci in cui si presentano i murales.

Purtroppo, anche la mostra di Antonio Cereda è stata chiusa anzitempo a causa dell’ordinanza anti Coronavirus, ma ci restano il catalogo e il suo messaggio, “andare a cercare queste opere nel museo all’aperto che è la città”.


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