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È da poco arrivato in libreria un nuovo libro dell’antropologo Adriano Favole intitolato La via selvatica: storie di umani e non umani, pubblicato dall’editore Laterza. Nell’introduzione l’autore spiega che avrebbe preferito impiegare il termine incolto al posto di selvatico ma di aver rinunciato perché questo termine “rimanda immediatamente all’idea di trasandato, trascurato, inglobando in sé un tratto negativo”. Con incolto Favole intende il non-umano, tutto ciò, quindi, “che vive al di fuori dei confini delle culture intese come spazi simbolici”. Il tema è di grande interesse e ne abbiamo parlato più volte perché l’arte non solo si è occupata di natura ma soprattutto recentemente ha approfondito le sue indagini sul non coltivato, sul selvatico come nuova dimensione relazionale per l’umano alla ricerca di soluzioni alle problematiche ambientali, ma non solo, della nostra società.
La tesi espressa da Adriano Favole può essere così sintetizzata. A partire da Cicerone che paragonava l’educazione dell’essere umano a un terreno da coltivare si è creata un’opposizione tra ciò che è coltivato, educato e ciò che non lo è e quindi è incolto e pertanto vive una vita selvaggia che, attraverso successivi sviluppi, ha costituito l’ossatura della cosiddetta civiltà occidentale. Se per un lungo periodo essa ha riguardato i rapporti tra classi ricche e classi povere, tra civilizzati e barbari, con il periodo delle grandi scoperte geografiche inaugurato da Cristoforo Colombo, l’opposizione si spostò tra i paesi europei e gli abitanti, i nativi, gli indigeni che vivevano nelle terre oggetto delle scoperte e che vennero considerati selvaggi, selvatici, incolti cioè non educati.
Riprendendo quanto narrato da Amitav Ghosh nel suo volume La maledizione della noce moscata, Favole evidenzia come i nativi e la natura in cui vivevano, vennero considerati come risorse da impiegare, da estrarre, da sfruttare, affermando la concezione del mondo come risorsa in cui il dove perde qualsiasi significato e il tempo e l’efficienza diventano il paradigma da impiegare. Il colonialismo, il genocidio, lo schiavismo e la segregazione sono le armi impiegate per poter affermare questa concezione che Ghosh chiama terraforming e che Favole traduce in terraformazione, per la quale il selvaggio deve essere estirpato e tutta la terra deve essere trasformata in qualcosa di omogeneo.
Favole, facendo ricorso anche al concetto di Terzo Paesaggio di Clément, invita invece a recuperare il rapporto con l’incolto perché esso non è il caos ma è uno spazio ad alta densità di vita che non può essere visto solo come minaccia o fastidio perché esso è un aspetto del mondo che viviamo e della condizione umana, “noi siamo incolto”, anche se la nostra tendenza è quella di voler dimenticare il rapporto con ciò che è non-umano. Attraverso una serie di esempi tratti dai propri viaggi o dalla letteratura, Favole ci porta a contatto con gli Inuit, i Kanak, gli Achuar, ma anche con la cultura giapponese, mostrandoci come per queste popolazioni il rapporto con l’incolto sia il mondo di relazioni tra umani e non umani, un insieme di possibilità passate e future in cui l’attività estrattiva è accompagnata da un “maggese spazio-temporale”, da una sospensione delle attività umane che dà alla natura la possibilità di rigenerarsi perché essa è ciò che deve nascere, la forza creatrice attraverso riti di fertilità o momenti in cui i suoi frutti sono condivisi.
La proposta di Favole è quella quindi di liberarsi dalla bulimia dei segni, dall’eccesso di mediazione simbolica coltivando un’utopia che egli chiama Koinocene che indica comunanza partecipazione, somiglianza, dando la parola ai non umani, a chi vive nell’incolto dove gli elementi vegetali si trasformano nel loro ciclo di vita e morte e contemporaneamente si sviluppano la vita e nuove relazioni sociali, come descritto da Anne Tsing nel suo libro sul Matsutake, il fungo giapponese che cresce nelle foreste dell’Oregon e come fa esperienza la dottoressa Patricia Westerford, una delle protagoniste del romanzo il Sussurro del mondo di Richard Powers, trovandosi di fronte ai grandi tronchi caduti a terra nella foresta in cui si è rifugiata dopo l’ostracismo della comunità scientifica, di cui abbiamo parlato in questo blog.
Come dicevo in apertura, l’arte si è recentemente confrontata con il tema dell’incolto e del selvatico. Artisti molto diversi tra loro come: Eugenio Tibaldi, Carlo Cane, Dacia Manto, Edoardo Manzoni, Luca Petti, Paola Marzoli, Binta Diaw, Paolo Peng Shuai, Mario Costantini, solo per citarne alcuni, hanno approfondito gli aspetti macro e microscopici del non-umano.
Il Terzo Paesaggio, come ricordato anche da Favole, costituisce l’incolto più prossimo a noi nelle periferie urbane, fatto di umano e non umano: di persone, vegetazione, animali, che si muovono in uno spazio non terraformato e per questo non ancora standardizzato ed uniforme. Di questo si occupa in maniera esplicita Maura Tacchinardi, di cui abbiamo già parlato a ottobre dello scorso anno, che presenta dal 9 al 23 maggio la sua mostra Incolto allo spazio LUAR di Milano. Le opere, che potrebbero apparire come una rappresentazione visiva del titolo e dei contenuti del libro di Favole, sono, in realtà, il risultato di una lunga ricerca, svolta in quartieri periferici di Milano, attraverso progetti di arte pubblica e relazionale intorno a un’indagine di tipo sociale e antropologica sulla vita delle persone che vi abitano, sugli spazi di vegetazione che residuano, sulle condizioni che rendono possibile vivere in un luogo facendone un’isola. Esse rimandano ad ambienti vegetali, ma anche a stati d’animo, che crescono vorticosamente, che salgono dal pavimento sulle pareti, aggrappandosi a queste, grovigli vegetali realizzati con china e acquerelli liquidi che, con effetti optical, si trasformano in texture e wall paper ma anche in ricami su carta, disegni e forme realizzate con la macchina da scrivere. Le opere della Tacchinardi appaiono la rappresentazione delle parole di Clément citate da Favole “l’incolto è l’inconscio del nostro spazio vitale “e “uno spazio senza incolto sarebbe come una mente senza inconscio”.
The Wild Way emerges in the Uncultivated
The new book by the anthropologist Adriano Favole entitled The wild way: stories of humans and non-humans, speaks of uncultivated, that is, non-human. Through the story of his travels and taking inspiration from the concept of the Third Landscape of Clement, the proposal of Fables is to free us from the bulimia of signs, from the excess of symbolic mediation cultivating a utopia that he calls Koinocene that indicates: community participation, similarity, giving the floor to non-humans, to what lives in the wilderness where the plant elements are transformed into the cycle of life and death and simultaneously develop life and new social relationships. By a causal coincidence of themes and times, Maura Tacchinardi’s work on the uncultivated can provide a visual representation of the uncultivated as unconscious of our living space.
Un commento su “La Via Selvatica sbuca nell’Incolto”