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L’immagine in testata è uno scatto del fotografo Paolo Dell’Elce di cui potete leggere la biografia cliccando sulla foto. A commento della stessa trovate un capitolo del suo scritto “La porta nel paesaggio” , risalente agli anni Novanta, che ritengo sia molto utile come introduzione al suo lavoro (FDF).
Nella mia esperienza artistica ritengo che sia stato fondamentale il luogo in cui sono venuto al mondo.
Sono nato nel terzo giorno di primavera, esattamente al sorgere del sole, con la luce; in una casa modesta in prossimità della spiaggia e ai margini di un’estesa pineta litoranea, all’epoca ancora piuttosto selvaggia. Ho respirato l’aria salmastra del mare e la resina dei pini per tutta la mia infanzia. I ricordi più lontani mi riportano l’immagine scura di una culla nel controluce di una finestra, un riflesso, un bagliore sul pavimento e poi tutto ritorna nel buio.
La mia memoria risale a quella percezione, si muove verso il presente da quel punto. Nasce dalla percezione della luce e del buio. Successivamente ricordo la pineta di notte, un’immensa massa scura interrotta talvolta da piccole luci che mio nonno diceva che fossero gli occhi dei lupi. Poi il mare d’inverno, che vedevo dalla mia finestra, grigio uniforme.
Scrive Attilio Bertolucci: – Le gaggie della mia fanciullezza / dalle fresche foglie che suonano in bocca… / Si cammina per il Cinghio asciutto, / qualche ramo più lungo ci accarezza (…). – È la rievocazione di un particolare paesaggio: il paesaggio originario, dove ogni suo elemento acquista una valenza fondamentale nella sensibilità del futuro poeta. La gaggia è l’elemento di questo paesaggio che ritroveremo, immancabile, in tante sue liriche.
Rievocare nel ricordo questo paesaggio, significa rievocare la nascita, quel momento lontano in cui si è vissuti “come in un caldo sogno”.
Nel mio lavoro fotografico ho rievocato i luoghi della mia nascita, identificando gli elementi del mio Paesaggio originario. Tutta la mia esperienza estetica sembra ricondurmi a certi soggetti del paesaggio che si manifestano in un forte controluce come segno o massa scura; chiome di pini, tronchi d’albero che si stagliano su uno sfondo luminoso uniforme, Sylvia Plath scrive: – Neri sono gli alberi della memoria… –.
Spesso mi chiedono perché fotografo sempre gli alberi. Mi è sempre difficile rispondere con parole pronte e vorrei parlare a lungo della grande bellezza di un albero, della sua presenza; la sua astanza. L’albero sta e si pensa. La sua vita apparentemente immobile mi assorbe e mi trasmette la percezione di un ritmo differente da tutta la realtà circostante.
L’albero diventa un’isola; forse una porta, il custode vivente del Tempo. L’immagine nera degli alberi nel paesaggio mi partecipa il senso di una solitudine cosmica; la sofferenza, il dolore del mondo, ma anche un’intima sensazione della bellezza assoluta e ineffabile. La nera purezza di queste forme ha strutturato il mio spazio spirituale donandomi il conforto di una consapevolezza esistenziale, come quando di notte, camminando soli per una strada deserta, nel silenzio, improvvisamente ci accorgiamo del suono dei nostri passi; quel suono ci rivela a noi stessi e da quel momento ci accompagnerà nel nostro cammino.
Il Paesaggio originario è il luogo primordiale, ma anche immagine primordiale, è lo spazio nascente che si origina con l’uomo, ma che serba il sapore di una “nostalgia senza oggetto” e il sentimento numinoso di una preesistenza.