L’antropologia Domestica di Silvia Camporesi


(Tempo di lettura 4 minuti)
Silvia Camporesi – Domestica – Other Size Gallery installation view – ph. Nicola Gnesi

Dei periodi di chiusura associati alla pandemia si è detto molto sia dal punto di vista degli effetti sui cittadini che dal punto di vista di quelli sugli artisti.  Per molte famiglie e in particolare per le donne è stato un periodo molto impegnativo, lavorare e vivere in uno spazio ristretto ha messo alla prova le relazioni personali, si è parlato di aumento della violenza domestica, ad esempio, ma ha anche dato spazio a nuove abitudini e tradizioni alimentari come fare il pane. Per gli artisti si è parlato di apatia, difficoltà, occasione di spunti, di riflessione. Silvia Camporesi (Forlì-1973) presenta ora alla Other Size Gallery, fino al 4 marzo, il suo lavoro Domestica in cui, attraverso le fotografie realizzate assieme alle sue due piccole bambine, ci propone un’antropologia della vita domestica.

Durante il lockdown uno degli aspetti certamente più sottolineati era il contrasto interno/esterno. Mentre noi esseri umani eravamo rinchiusi in casa, fuori la natura, vegetale e animale, si riprendeva i suoi spazi ma noi potevamo solo osservarla dall’interno o guardare le immagini che ci venivano riportate. Paradossalmente però, ma non tanto, in questo lavoro di Silvia Camporesi il giardino, di cui pure la casa è dotata, è quasi assente perché quello che è importante è ciò che accade in casa, nello spazio in cui si convive, lo spazio confinato. Qui c’erano una donna, madre-fotografa, due figlie bambine, forse non ancora in età scolare e un cane che hanno reinterpretato lo spazio domestico e creato la propria antropologia domestica.

In una video intervista del marzo dell’anno scorso, intitolata Il mondo è tutto ciò che accade, la nostra artista racconta di aver pensato ad un lavoro di questo tipo già dopo la nascita della prima figlia, incentrato sul pensiero della pedagogista Maria Montessori, secondo cui dice, “i bambini sono adulti in miniatura con regole affascinanti per guardare il mondo”. In realtà qui il punto di vista non è solo quello delle bambine ma un nuovo punto di vista medio, risultato dell’incontro tra quello materno-artistico e quello infantile-magico che crea un’interpretazione dello spazio domestico. Certo conseguenza anche di una condizione di genere, visto che dice la Camporesi, il suo compagno ha continuato a lavorare per tutto il tempo e quindi la gestione della casa e delle bambine è ricaduto su di lei.

Oltre al progetto, determinante è stata la disciplina che la Camporesi si è data in generale nella sua vita professionale e in quei giorni in particolare. Nella stessa intervista citata, la Camporesi racconta come all’inizio della sua carriera professionale, un mecenate le avesse proposto di sostenerla, acquistando delle sue foto per un periodo di due anni, consentendole così di dedicarsi alla sua professione, ma che lei avrebbe dovuto darsi delle regole di lavoro, per cui oggi lei tiene dei diari dei suoi sogni, delle sue idee di ricerche e dei post in cui annota le cose da fare quotidiane. Nel periodo del lockdown si è conseguentemente ispirata alla massima attribuita da Plinio al pittore greco Apelle “Nulla dies sine linea”, nessun giorno senza linea, per indicare la necessità dell’esercizio giornaliero. Cosicché, in quei giorni la massima che l’ha supportata è stata “devo arrivare a sera con almeno una buona fotografia, questo è il mio compito quotidiano”.

La necessità di intrattenere le bambine ma anche di rendere proficuo da un punto di vista educativo e lavorativo, il tempo trascorso in casa, ha portato a una reinterpretazione dello spazio domestico, disegnando a terra con del nastro adesivo spazi che diventavano mari e continenti e di cui si ha un’esemplificazione nella galleria milanese in cui la mostra è esposta e dove sul pavimento sono stati individuati gli spazi di una casa. I viaggi immaginari erano accompagnati da carte e mappe geografiche che consentivano di estendere il pensiero e l’immaginazione oltre le mura domestiche e oltre il giardino.            

  • Silvia Camporesi. Domestica, 2020_courtesy Galleria z2o, Roma_9
  • Silvia Camporesi. Domestica, 2020_courtesy Galleria z2o, Roma_8
  • Silvia Camporesi. Domestica, 2020_courtesy Galleria z2o, Roma_10
  • Silvia Camporesi. Domestica, 2020_courtesy Galleria z2o, Roma_4
  • Silvia Camporesi. Domestica, 2020_courtesy Galleria z2o, Roma_1
  • Silvia Camporesi. Domestica, 2020_courtesy Galleria z2o, Roma_3
  • Silvia Camporesi. Domestica, 2020_courtesy Galleria z2o, Roma_5
  • Silvia Camporesi. Domestica, 2020_courtesy Galleria z2o, Roma_7

In questo processo di reinterpretazione ma anche di creazione della realtà: sogni, segni, magia, fissati dalla macchina fotografica, hanno svolto un ruolo determinante. Le crepe sul muro divengono un oceano con delle isole oppure un lupo e un corno di un daino un drago. La crepa perfetta di un piatto rotto una strada e la rottura della sua tazza preferita si trasformano in una domanda, “sarà un caso la loro rottura oppure significherà qualcosa?”. Vedere oltre la destinazione d’uso delle cose ci fa entrare in un’altra dimensione in cui il loro linguaggio assume una dominanza diversa. Il quotidiano perde il suo aspetto di routine per divenire invece elemento di riflessione, di visione, di interpretazione, di predizione della realtà. Leggendo il diario di quei giorni scritto dall’artista, non ho potuto fare a meno di pensare a Come pensano le foreste, il libro dell’antropologo Edoardo Kohn che ci ha mostrato che quando non si è distratti e i modelli interpretativi si modificano, grazie ad esempio al sogno, le cose assumono una nuova realtà. Al tempo stesso il pensiero delle figlie sulle arance che si mangiano e non si fotografano riconduce alla destinazione d’uso delle cose sottraendole a qualsiasi altro significato che la fotografia potrebbe creare e riproponendo la domanda su ciò che sia possibile fotografare.

Nella riflessione che la Città Vegetale porta avanti sulla riconsiderazione della relazione con gli altri esseri naturali, animati o meno, ci è utile una nota di Monsignor Gianfranco Ravasi che, citando un pensiero di Martin Buber (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965) sul Sole 24 ore del 16 gennaio di quest’anno, ci invita ad uscire dal solo perimetro dei verbi transitivi che implicano una relazione con le cose mentre avremmo bisogno della relazione con un “tu”. Ora, se è certamente vero che la nostra epoca ha privilegiato le cose oltre le persone e quindi siano queste a dover avere la priorità, anche una nuova relazione con le cose è necessaria nella formazione di un nuovo pensiero e il lavoro di Silvia Camporesi ne è un esempio.

Abstract

Silvia Camporesi (Forlì-1973) presents at the Other Size Gallery in Milan, until March 4, her work Domestica in which, through the photographs taken together with her two little girls during the first lockdown, proposes an anthropology of domestic life and an example of a new way of relating to things. Seeing beyond their intended use brings us into another dimension where their language takes on a different dominance. The daily loses its routine aspect to become instead an element of reflection, vision, interpretation, prediction of reality.


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