Matsutake: il fungo che secondo Anna Tsing ci fa capire il nostro presente


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Funghi Matsutake – Foto di Tomomarusan – GFDL+creative commons 2.5

Sulla Lettura di domenica 28 giugno, c’era una bella intervista di Danilo Zagaria a Merlin Sheldrake sul suo libro “L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi”. Una sua domanda riguardava il saggio dell’antropologa Anna Tsing “The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins” (Il fungo alla fine del mondo: sulla possibilità della vita nelle rovine del capitalismo), non ancora tradotto in italiano, che ho letto per voi e di cui voglio parlarvi.

Anna Tsing è un’antropologa americana, docente all’università della California, che conduce degli studi transdisciplinari sull’Antropocene, cioè sull’era iniziata con la rivoluzione industriale e caratterizzata dal forte intervento umano sull’ambiente, di cui ho parlato più volte in questo blog. Nel suo libro, la Tsing utilizza il caso del fungo Matsutake, un miceto diffuso in alcune regioni del mondo, ma consumato soprattutto in Giappone, per illustrarci, attraverso la sua “supply chain”, (la sua catena di fornitura), le relazioni socioeconomiche di questa fase del capitalismo.

Il Matsutake è caratterizzato da un odore molto particolare, definito “aroma di autunno”, che lo rende molto ricercato. Cresce vicino ai pini che hanno ripopolato foreste “disturbate”, cioè che hanno subito cambiamenti repentini dell’ecosistema a causa dei disboscamenti dovuti ai tagli industriali o ad incendi e disastri ambientali, con cui ha una relazione di mutuo aiuto. Purtroppo, non può essere coltivato e a causa dell’estrema variabilità della fornitura, il suo prezzo è molto elevato, fino a migliaia di euro al kg e subisce forti oscillazioni. Ciò ne fa un bene di pregio, impiegato come regalo per occasioni particolarmente importanti, soprattutto in Giappone.

A causa dell’insufficienza della produzione giapponese, il fungo dev’essere importato. Uno dei luoghi in cui cresce è l’Oregon, stato sulla costa ovest degli Stati Uniti, dove dagli anni Ottanta si è scatenata una nuova “caccia all’oro” da parte di soggetti caratterizzati tutti da un’estrema precarietà socioeconomica: veterani americani, rifugiati cambogiani, hmong (una popolazione che vive tra Vietnam e Laos), laotiani che vivono in campeggi nei boschi dove si effettua la raccolta, spesso in lotta con le aziende dell’industria del legno e con scarsa consapevolezza della legge. Questi cercatori di funghi, di cui l’autrice ci racconta la storia e che ci ricordano alcuni dei personaggi del bellissimo libro di Richard Powers “Il sussurro del mondo”, hanno vissuto, direttamente o attraverso i loro familiari, i traumi della guerra su fronti opposti e hanno scelto di trasformarsi in cacciatori di funghi perché uniti dal sogno della “libertà”. È questa parola, sostiene la Tsing, che consente loro di “assemblarsi”, di cooperare in una specie di happening, anche se probabilmente, ognuno di loro le attribuisce un significato diverso.

La raccolta dei funghi si realizza grazie a diversi soggetti: i picker (raccoglitori), i buyer (quelli che acquistano) e i bulker (che assemblano i vari acquisti dei buyer per l’esportazione). Il prezzo dei funghi si forma attraverso l’asta che si svolge ogni giorno mediante il meccanismo “dell’open ticket”. In base a questo schema il buyer acquista i funghi ma si impegna a pagare al picker il prezzo massimo registrato nella giornata di contrattazione. In pratica potrà assicurarseli da subito anche se poi dovrà riconoscere la differenza di prezzo più alto. I bulker vendono agli esportatori asiatico-canadesi che hanno aggiunto i funghi alle referenze che esportavano già e sono gli unici a poter dialogare con gli importatori giapponesi dall’altro lato dell’Oceano Pacifico. Nel passaggio dall’esportazione all’importazione, il processo instabile di raccolta dei funghi nelle foreste si stabilizza in scorte che possono arrivare in modo controllato sul mercato e in regole che guidano i funghi verso i mercati e i consumatori finali.

La catena di fornitura che ho sintetizzato descrive, secondo l’autrice, l’accumulazione capitalista odierna che assume le caratteristiche di una “salvage accumulation“, traducibile come “accumulazione di recupero”. Le imprese accumulano capitale senza controllare le condizioni “naturali” in cui i beni sono prodotti o senza saperli produrre. In pratica, le imprese effettuano una conversione della conoscenza “indigena” in capitale e cita tra gli esempi, il caso delle operaie che imparavano a cucire a casa e portavano la loro conoscenza in fabbrica. In questa fase del capitalismo, che Tsing chiama “pericapitalismo”, i beni e servizi prodotti in modo “non capitalistico”, come nel caso della raccolta dei funghi Matsutake, si traducono in ricchezza accumulata dal capitalismo.

Ciò non rende la Tsing pessimista. La constatazione che persone in situazione di precarietà, con culture e storie personali molto diverse, in diverse parti del mondo, “assemblandosi” tra di loro, riescano a lavorare mediante un meccanismo non standardizzabile, date le caratteristiche del prodotto, dimostra che nel capitalismo sono possibile forme non capitalistiche e che l’incontro e la collaborazione sono indispensabili per emergere dalla precarietà. Per Anne Tsing il modello dei cercatori di Matsutake si può estendere anche alla ricerca scientifica e ai modelli educativi che devono privilegiare l’avventura e il raccolto inatteso, come per i funghi.

Nonostante in alcuni passaggi, il libro possa apparire affetto da un certo romanticismo da “vita nei boschi” o datato, quando fa ricorso alla teoria dell’alienazione di Karl Marx, il merito della Tsing è quello di aver descritto, impiegando varie discipline, un grande quadro delle relazioni socioeconomiche odierne, attraverso il viaggio di un fungo in diverse aree del mondo.


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