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Immaginate una stanza completamente bianca. Bianchi il pavimento, le pareti, le volte e gli infissi. Anche l’aria sembra piena di pulviscoli dello stesso colore. E voi e i vostri abiti, se poteste guardarvi, vi sentireste così. Il tempo e i suoni sono sospesi, come quando siete di fronte a un paesaggio innevato. Davanti a voi ci sono tre teche trasparenti e solo dopo un po’ vi accorgete che non sono sospese ma che sono appoggiate su delle basi di legno scuro. Vi avvicinate a quella più vicina a voi con un certo timore e quando guardate all’interno vedete degli oggetti che faticate a riconoscere, hanno qualcosa di familiare, sapete di conoscerli eppure non riuscite a capire cosa sono. Sembrano dei fossili, risultato dell’agire del tempo sulla materia biologica ma potrebbero essere anche dei reperti di uno scavo archeologico: piccole ciotole, monili, bicchieri, grandi crateri impiegati per cucinare, di cui è rimasta solo una sottile lamina. Poi, pian piano, si fa strada in voi il ricordo di quelle forme, sono vegetali, sono cibo, che pur vedendoli ogni giorno, anzi forse perché li vedete ogni giorno, avete fatto fatica a riconoscere.
Luca Trevisani (Verona, 1979), nella sua mostra In Bocca, in corso a Genova alla Galleria Pinksummer fino a fine maggio, riesce nell’impresa, coraggiosa e meritoria, di stupirci mettendoci di fronte a ortaggi e frutta, trasfigurati in qualcosa di diverso dal cibo che ingeriamo e che ci mettiamo, per l’appunto, in bocca quotidianamente. A causa di abitudini alimentari che li fanno arrivare a noi trasformati, come alimenti o come immagini, ne abbiamo dimenticato le forme, tranne forse quelle sempre uguali e standardizzate della qualità definita dai regolamenti alimentari e dalle regole espositive della GDO. Trevisani ci tiene a precisarmi che lui non parla di cibo, ma che questo gli interessa come materia manipolabile, probabilmente la più importante, che viene trasformata e che trasforma noi e il mondo, eppure di cibo si tratta e questo non rende meno importante il suo lavoro.
Per realizzare queste sculture Trevisani ha compiuto un lungo processo di lavorazione ma anche di riflessione, parallelo a quello digestivo, che gli ha consentito di trasformare la materia dei nostri vegetali in qualcosa di diverso, invitando anche noi a riflettere ripercorrendolo con lui. Ananas, fichi d’india, meloni, cocco, pigne e poi trombette, zucche di diversa dimensione, melanzane, sono stati svuotati ed essiccati, apprendendone la composizione, la struttura, il comportamento, studiando accorgimenti perché la buccia priva della polpa interna non si ripiegasse su sé stessa, come un calzino, portandoci al loro interno, in bocca al cibo. Alla fine di questo processo ha ottenuto delle sculture di grande bellezza, a volte appoggiate a piccoli sostegni coperti da una lamina d’oro, simili a oggetti sacri, reliquie, così estranei a quelli di partenza, come provenienti da un mondo alieno, un risultato che rispetta e nobilita il lungo lavoro dell’agricoltura necessario a coltivarli. Sculture da non osservare solo esternamente ma anche al loro interno come se potessimo scorgere i loro organi e i loro misteriosi meccanismi di crescita e riproduzione.
Merito e coraggio quello di Trevisani di trattare un tema così importante e così difficile da affrontare, evitando semplificazioni e ripetizioni, grazie a un pensiero e una cultura forti che lo sostengono. “La nostra dieta, qualunque essa sia, è una vera e propria scultura, è un processo di formalizzazione del mondo, una messa in forma delle sue energie, operata tramite scelte di gusto, appartenenza e ideologia”, afferma nel comunicato stampa che accompagna la mostra. Quando gli chiedo di precisare quale sia la scultura che i nostri atti di consumo alimentare realizzerebbero, mi risponde semplicemente “il mondo”, perché tutte le nostre scelte nutritive lo influenzano, creando la realtà, sia del nostro corpo sia del paesaggio e così come ogni scultura è un concentrato di realtà, così anche il cibo sintetizza storia, cultura, tempo, relazioni sociali. Certo, noi non riusciamo a vedere per intero la scultura del “mondo”, eppure essa c’è ed è modificabile anche dai nostri atti di consumo, come sostenuto da Jonathan Safran Foer nel suo libro, Possiamo salvare il mondo, prima di cena.
Ma quale esempio da additare a chi voglia avvicinarsi al mondo del cibo e della natura, Trevisani sceglie il botanico: “Ripensate il trapianto, l’innesto, la mutazione, rubate i gesti al botanico irrequieto, e utilizzateli per dar vita a immagini, sculture e azioni. Sono questi metodi e strade che distorcono e sublimano la nostra idea di ricerca scientifica, e la traghettano in pratica artistica, in favola visiva, in libertà”. Poiché sono meravigliato di questo accostamento, mi precisa che “il botanico è l’esempio di chi ascolta la voce di chi non può parlare, di chi non si può muovere come le piante, atteggiamento a cui deve ispirarsi l’artista, che deve saper ascoltare senza che questo voglia dire essere passivi ma invece avere grande cura.
Critica della società tecnologica e dell’Antropocene quindi quella di Trevisani. A chi pensa che il cibo esiste comunque e che per averlo basti fare ricorso a una app per ordinarlo, senza considerare che un evento imprevisto, come ad esempio il blocco del canale di Suez dei giorni passati, può ritardare di mesi la catena di forniture, Trevisani, con il suo lavoro, ricorda che il cibo non è scontato e che solo una serie di coincidenze ci consentono di produrlo e di averlo e che ci sono zone del mondo in cui, purtroppo, queste coincidenze non si verificano.
Nonostante il rilievo del cibo per la nostra vita e la sintesi sociale che esprime, esso non sembra essere più un soggetto per gli artisti, probabilmente perché quest’ultimi sono annichiliti e tramortiti dalla continua ostentazione di ricette, concorsi, foto di piatti, chef, artisti della tavola e quindi si ritraggono preferendo non parlarne. Per questo la sfida di Trevisani è tanto più meritoria perché riparte dall’alimento e ne fa scultura che incorpora tutte le valenze di cui è portatore.
Luca Trevisani brings us into the mouth of food
Luca Trevisani (Verona, 1979), in his exhibition In Bocca, in progress in Genoa at the Pinksummer Gallery until the end of May, manages in the enterprise, brave and meritorious, to amaze us putting us in front of vegetables and fruit, transfigured into something different from the foods we ingest daily and taking us inside, Into the mouth of food. After a long process of working, he obtained sculptures of great beauty, similar to sacred objects, relics, so foreign to those of departure, as coming from an alien world, a result that respects and ennobles the long work of agriculture necessary to cultivate them.