(Tempo di lettura 5 minuti)
Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi (780 circa – 850 circa) fu un matematico, astronomo e geografo, nato probabilmente nella regione di Corasmia e cresciuto nella città di Khiva, vicino il lago Aral, che oggi sono parte del territorio dell’Uzbekistan. Quando il Califfo al-Ma’mun creò a Baghdad la Casa della saggezza, conosciuta anche come la Grande Libreria di Baghdad, destinata alla raccolta del sapere, egli vi entrò a farne parte. Scrisse il volume al-Kitāb al-mukhtaṣar fī ḥisāb al-jabr wa l-muqābala, che gli valse il titolo di padre dell’algebra (al-jabr) nel quale raccolse le nozioni di calcolo provenienti dalla tradizione indiana e greca, fornendo le modalità di soluzione di problemi di eredità, accordi commerciali, misurazione di terreni, che si verificavano nella vita di tutti i giorni. Il suo nome latinizzato, Algorizmi, divenuto poi Algoritmo, è oggi comunemente impiegato per descrivere un processo che porta, in un numero finito di passi, alla risposta ad una domanda o alla soluzione di un problema. Compilò tavole astronomiche (Zij) che davano informazioni sul calendario, sui movimenti del sole, pianeti, figure dello zodiaco. Infine, coordinò gli studi per la misurazione della circonferenza della Terra e realizzò una versione rivista e corretta della Geografia di Tolomeo.
Il padiglione della Repubblica dell’Uzbekistan, alla 59° Biennale di Venezia, è dedicato a questo illustre personaggio ed ha preso il nome di Giardino della Sapienza in ricordo della Casa della Saggezza di Baghdad e dei giardini musulmani, perché durante il periodo della Biennale, sia luogo di incontro, di riflessione di meditazione, proponendo un metodo di confronto appartenuto alla tradizione di quel tempo. Il padiglione, infatti, ospiterà in questi mesi un fitto programma di eventi dedicati all’arte, alla scienza, alla tecnologia e alla filosofia. Il progetto espositivo è di Space Caviar, uno studio di architettura e di ricerca che si è già messo in evidenza per la partecipazione a diverse edizioni della settimana del design milanese, mentre le sculture floreali sono dello Studio Mary Lennox di Berlino. Considero il padiglione dell’Uzbekistan come uno dei migliori momenti espositivi della Biennale e, in un certo senso, come una vera e propria opera d’arte e voglio spiegarvi il perché.
Innanzitutto, devo dirvi che vi sono arrivato abbastanza casualmente. Visitare la Biennale è piuttosto faticoso e al mio secondo giorno, dedicato all’Arsenale, scoraggiato dalla coda all’ingresso del Ramo de la Tana, mi sono diretto verso quella del Ponte dei Pensieri, invece deserta, dove si conclude la visita e quindi ho iniziato il mio giro dalla fine, potendo visitare, ancora riposato, nell’ordine i grandi padiglioni di Cina e Italia e la grande e rilassante video installazione di Wu Tsang e poi imbattendomi in quello dell’Uzbekistan, che se stanco, probabilmente avrei saltato.
Superata la tenda nera che immette nello spazio, ho notato una fila di scarpe collocate ai piedi di una scala di alcuni gradini che portano alla superficie espositiva vera e propria e sono stato colpito da un odore che non conoscevo, una fragranza che sapeva di salmastro ma anche di altro. Una mediatrice mi ha informato che per salire sulla superficie era necessario togliere le scarpe e indossare delle soprascarpe. Nel frattempo, mi sono seduto e ho abbracciato con lo sguardo lo spazio che mi si apriva davanti oltre la scala di accesso. Tutta la superficie, completamente piana, solo in un angolo, verso il fondo e all’inizio, ci sono ancora alcuni gradini che salgono, è stata realizzata con fogli di acciaio inossidabile nero lucido, tagliati al laser mentre le pareti del padiglione sono state lasciate alla loro finitura originaria a mattoni. La mediatrice avvisava il pubblico di fare attenzione invece a dei gradini che scendono ma che, dalla posizione di partenza, non si potevano vedere. Dal soffitto pendono enormi sculture di una essenza essiccata, di un colore grigio violaceo, responsabile dell’odore che si percepisce. Scopro che si tratta di limonium, una pianta diffusa particolarmente in Uzbekistan, scelta anche per via del fatto che tende a essiccare e non deperisce, con un odore molto intenso che, misto con quello della salsedine dell’arsenale, in quel punto si intensifica maggiormente. Le sculture floreali fanno pensare a un giardino sospeso ma che non appartiene a un singolo territorio mentre i colori delle essenze, blu e viola, sono legati all’Uzbekistan. Sul lato destro un pianoforte elettronico programmato suona una composizione musicale di Charli Tapp.
Molti visitatori si aggiravano per lo spazio che, tranne che per il pianoforte, era completamente vuoto. Nonostante ciò, lo perlustravano attentamente come se cercassero qualcosa, come se al di sotto del colore dell’acciaio potesse nascondersi qualcosa. Non si trattava solo di prudenza nel camminare sulla superficie monocroma e riflettente, anche se perfettamente liscio. Togliere le scarpe e indossare i calzari di plastica induceva immediatamente a un rispetto e a un’attenzione maggiori, a qualcosa di religioso, come se ci si trovasse in un tempio aconfessionale. Tutti si muovevano lentamente, senza parlare, indugiando solo per qualche foto dove una grande siepe di limodium è appoggiata sul pavimento o vicino al pianoforte che continua a suonare o per osservare i punti in cui i gradini scendono.
Indossati i calzari di plastica e saliti i gradini, anch’io ho preso a comportarmi come i visitatori che ho osservato. La superficie nera lucida, in effetti, su cui appaiono riflessi gli addobbi floreali e le travature del soffitto, sembrava nascondere qualcosa e quando mi sono avvicinato ai punti in cui i gradini scendono per formare delle piccole agorà, delle cavee ma al cui fondo, per effetto dei riflessi sul pavimento nero, sembrano esserci delle piccole pozze d’acqua coerenti con il giardino arabo che l’insieme vuole rappresentare, ero ancora più attento. Anche io ho perlustrato tutto lo spazio nonostante fosse vuoto e se, come dice il filosofo Emanuele Coccia, sono gli oggetti che rendono possibile lo spazio di una casa, qui l’esperienza del vuoto, dello spazio era un’esperienza morale, un viaggio dell’anima, che nel rigoglio di tutte le immagini di opere che avevo visto nel percorso espositivo della Biennale introduceva una pausa, perché non c’era una singola opera da guardare ma piuttosto un’opera da esperire, in cui immergersi, ‘un’opera avvolgente e coinvolgente di cui non dovevo percepire altri significati ma che mi entrava dentro con il respiro.
Il Giardino della Sapienza non è solo un contenitore ma è di per sé un’opera d’arte. Esso come le opere d’arte esprime un punto di vista sul mondo, come quelle è finzione, illusione, come quelle vive nell’osservatore, nella sua interpretazione e come quelle è anche, come dice sempre Emanuele Coccia: “spazio in cui una società può rendere visibile ciò che non può confessare, pensare o immaginare”.
Certo, però, mi si potrebbe obiettare, manca l’artista che ha faticato, il soggetto che personalmente può spiegare sulla sua pelle che cosa voleva realizzare e ha realizzato, manca il medium in cui l’opera è racchiusa, una tela, un video, una scultura, un corpo. Eppure, ci sono opere in cui l’artista non è il realizzatore ma è stato appena l’ideatore mentre è stato un artigiano o un gruppo di loro a farle, oppure opere realizzate da collettivi come per le canzoni, opere di vera e propria architettura come quelle di Christo. Ma al di là di tutto ciò resta il rapporto tra il visitatore e l’opera, la fruizione e la percezione e le sensazioni che ne ricava.
Per questo, se andrete alla Biennale di Venezia, non mancate di visitare il Giardino della Sapienza.
Abstract
At the Venice Biennale, in the Uzbekistan pavilion, there is a Garden of Knowledge. Go and visit it for a unique experience. You will discover curiosity, attention, respect and concentration in you.