Alla Triennale di Milano Siamo Foresta


(Tempo di lettura 6 minuti)
Cleiber Bane – Nai Mapu Yubeka – Acrilico su tela – 2022

La FondationCartier pour l’art contemporaine presenta alla Triennale di Milano, fino al 29 ottobre di quest’anno, la mostra Siamo Foresta, curata dall’antropologo francese Bruce Albert. Un grande appuntamento in cui mette in scena un dialogo tra pensatori e difensori delle foreste; tra artisti indigeni – in particolare quelli del Gran Chaco che si trova al nord del Paraguay, al confine con Argentina, Bolivia e Brasile, la zona con il più altro tasso di deforestazione al mondo in cui vivono diciannove comunità indigene e quelli della comunità Yanomami, che vive nell’Amazzonia del Brasile e del Venezuela, minacciati sia dalle attività agricole che dai cercatori di metalli preziosi  – e artisti professionisti non indigeni (Brasile, Cina, Colombia, Francia). Per chi volesse approfondire prima di visitarla o per non potesse, consiglio il sito web della fondazione Cartier che presenta in italiano tutti i contenuti organizzati in maniera tematica, dato che quello della Triennale, al contrario, è veramente scarno. I lettori della Città Vegetale sanno inoltre che già due anni fa avevamo presentato il volume Come pensano le foreste dell’antropologo canadese Eduardo Kohn e come quindi la problematica del rapporto tra esseri umani e viventi, sia un tema ben presente a chi scrive.

Per quanto l’esposizione non segua un filo cronologico evolutivo ma sia piuttosto organizzata per aree tematiche: incontri, vissuti differenti, storie riviste, sciamanismo, mondo magico e film indigeni; è possibile rintracciare una storia dell’arte indigena contemporanea e dei suoi rapporti con quella dei paesi confinanti con al centro il tema della difesa delle comunità indigene, delle loro tradizioni e dei loro territori proprio a partire dalla comunanza dei destini che ci riguardano tutti, da cui il titolo, perché se Siamo Foresta, condividiamo il destino della stessa e dei popoli che la abitano. Per visitarla suggerisco di non seguire l’itinerario predisposto dal curatore del percorso espositivo, l’artista brasiliano Louis Zerbini (1959), ma piuttosto sperimentare un tracciato incrementale che ci porta dal più semplice al più complesso, ammesso che questi termini abbiano un significato in arte, portandoci subito al centro della prima sala.

Il punto di partenza, per quanto di piccole dimensioni sia in termini di spazio occupato che di dimensione delle opere, è rappresentato dai lavori degli artisti indigeni: Efacio Álvarez (1969), Floriberta Fermín (1998), Angélica Klassen (1968), Esteban Klassen (1988) che nelle motivazioni della FondationCartier giocano certamente un ruolo importante. Si tratta di membri della comunità Nivaklé del Gran Chaco, che hanno iniziato ad esprimersi artisticamente in tempi diversi e come nel caso della Firmin molto recentemente, utilizzando la medesima tecnica del disegno con una penna a biro nera su fogli di carta bianca formato A4. La motivazione che li ha spinti a disegnare è molto spesso di tipo economico a cui si aggiunge anche quella di tipo politico e sociale. Dalle interviste che è possibile ascoltare nel filmato Para no olvidar (Per non dimenticare), uno dei tre presentati in mostra e che consiglio di vedere, si percepisce come il disegno abbia rappresentato per ognuno di loro anche il soddisfacimento di un vero e proprio bisogno psicologico perché in un mondo magico e con bassa scolarità le parole spesso non bastano. Nell’apparente similitudine tra i disegni, dovuta alla stessa tecnica, si scorgono però importanti differenze ad esprimere il complesso del mondo interiore. Se in generale i soggetti sono piante e animali che fanno parte del paesaggio circostante, i disegni di Efacio Alvarez si distinguono per la loro trama che crea effetti ottici da cui emergono dettagli. Quelli di Angelica Klassen comprendono anche personaggi semiumani come la donna con lo zoccolo con due dita che può uccidere gli uomini che la seguono nella foresta. Esteban Klassen introduce motivi dei riti sciamanici e rappresenta la capacità dello sciamano di assumere sembianze animali. Infine, Floriberta Fermín, si concentra in particolar modo sugli alberi, il Palo Santo del Chaco (Bulnesia sarmientoi) e il Samu’u (Palo Borracho, Ceiba Insignis). È difficile valutare questi lavori, per certi versi certamente naif, indipendentemente da altre tecniche artistiche come la scultura in legno, ceramica, forse praticate da queste comunità ma vedendo anche il lavoro di altri artisti di origine indigena possiamo considerare le loro opere come un punto di partenza, interessante e attraente, in vista di arricchimenti, tematici, cromatici e tecnici.

  • Angelica Klassen - Senza Titolo - Penna a sfera su carta - 2015_2018

Dal bianco e nero degli artisti indigeni, si passa poi ai colori degli artisti professionisti e qui vale la pena citare le sculture di Virgil Ortiz (1969), un nativo americano vissuto a Pueblo Cochiti, che si collega alla tradizione della ceramica dei pueblo; i dipinti fantastici e pieni di personaggi ibridi di Brus Rubio Churay (1984) pittore autodidatta dell’Amazzonia peruviana; la trascrizione in immagini dei canti rituali tradizionali del popolo Huni Kuin nelle opere del brasiliano Cleiber Bane (1983) che apre questo articolo.

Virgil Ortiz – Umanoide Rettiliano – argilla Cochiti rossa -barbottina di argilla bianca- barbottina di argilla rossa – pigmento nero (spinacio selvatico) – 2023

A questo punto è possibile tornare indietro verso l’ingresso, che si sviluppa attorno al rapporto che si è instaurato tra l’artista francese Fabrice Hyber (1961), noto per aver creato nel corso di vent’anni un bosco molto ampio attorno alla fattoria dei genitori in Vandea, noto come La Vallée, attualmente presente alla Fondazione Louis Vuitton di Venezia, fino al 7 gennaio del 2024, con la sua installazione La foresta invisibile e l’artista yanomami Sheroanawe Hakihiiwe (1971), originario dell’Amazzonia venezuelana, che vive nella comunità di Poripori, sull’alto fiume Orinoco, il quale è stato ospite di Hyber. Durante questo periodo i due artisti hanno lavorato assieme e in mostra sono presenti alcune grandi tele, in realtà la dimensione preferita da Hyber, realizzate a quattro mani. La presenza in mostra di alcune opere di Sheroanawe Hakihiiwe dà la possibilità di individuare il suo contributo specifico rispetto a quello di Hyber. In particolare, il segno di quest’ultimo risente certamente del suo approccio concettuale, larghe pennellate rapide con colori molto liquidi, mentre il segno dell’artista yanomamo è estremamente lento e preciso, attento al dettaglio, a riprodurre le caratteristiche dell’ambiente che lo circonda, come alberi, foglie, serpenti e, se posso dire, più rispettoso di questo e del suo carattere unico, figurativo e simbolico allo stesso tempo. La differenza di mentalità tra i due artisti è visibile, inoltre, nel video che riproduce la collaborazione a un certo punto del quale Hakihiiwe disegna un arcobaleno e Hyber aggiunge:“ se c’è un arcobaleno deve esserci anche la pioggia” e aggiunge delle pennellate trasversali a rappresentarla, stabilendo un nesso di causalità che non fa necessariamente parte della visione dell’altro artista.

Fabrice Hyber e Sheroanawe Hakihiiwe – Senza titolo – olio su carta su acrilico e carboncino su tela – 2023

Nel corso della rassegna ci sono altri due incontri di questo tipo anche se godono di minore spazio; come quello tra Joseca Mokahesi (1971), un altro artista yanomami, figlio di uno sciamano ma non sciamano anch’egli , primo operatore sanitario della sua regione e l’artista brasiliana Adriana Varejão (1964) e quello tra la yanomami Ehuana Yaira (1984) e l’artista cinese Cai Guo-Qiang (1957), noto per l’impiego dei fuochi d’artificio nella realizzazione delle sue opere.

Giungiamo infine alla fine della visita, dove ci attendono alcune opere del multiforme artista brasiliano Alex Cerveny (1963), forse il più noto di tutti quelli qui presenti, con i suoi paesaggi fantastici e surreali di un mondo immaginario, in cui le figure umane sono esseri vegetanti da cui fuoriescono foglie a testimoniare la forte unione tra umano e vegetale. Il segno di Cerveny accompagna inoltre il visitatore durante tutta il percorso, grazie alla sua calligrafia distintiva impiegata per il titolo della mostra, nonché per scrivere i nomi degli artisti direttamente sulle pareti.

(Tutte le immagini sono di proprietà degli autori o della FondationCartier pour l’art contemporaine)

Siamo Foresta

The FondationCartier pour l’art contemporaine presents at the Triennale di Milano, until 29 October this year, the exhibition Siamo Foresta, curated by the French anthropologist Bruce Albert. A great event in which he stages a dialogue between thinkers and defenders of forests; among indigenous artists – in particular those of the Gran Chaco which is located in northern Paraguay, on the border with Argentina, Bolivia and Brazil, the area with the most other rate of deforestation in the world in which nineteen indigenous communities live and those of the Yanomami community, living in the Amazon of Brazil and Venezuela, threatened by both agricultural activities and precious metal seekers  – and non-indigenous professional artists of Brazil, China, Colombia, France.


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