Silvia Infranco fa affiorare le tracce della memoria del mondo


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Porifera-metaforma V, Ctenactis-metaforma I, Ctenactis-metaforma II installation view, “TEMPUS DEFLUIT IMAGO LATET (perchè non voglio dimenticare), Marignana Arte, Venezia, curata da Marina Dacci (ph. Enrico Fiorese)

La scrittrice Anne Wiener nel libro “La valle oscura” (Adelphi, 2020 – traduzione di Milena Zemira Ciccimarra), dedicato alla sua esperienza di lavoro nella Silicon Valley, ci parla del “fardello psicologico comune a tutte le persone che lavoravano in ambito tecnologico, e soprattutto a quelli di noi che creavano un prodotto che esisteva solo nel cloud…”, peso causato dalla “consapevolezza che tutto il software era esposto in ogni momento alla cancellazione”. Per reazione “Metà dei programmatori tra i ventidue e i quarant’anni che conoscevo, per lo più uomini, stavano scoprendo che le loro dita erano multiuso. «Mi sento così bene quando faccio qualcosa con le mani» dicevano, prima di lanciarsi in monologhi sui lavori di falegnameria, sulla birra fatta in casa o sul pane al lievito madre.” Nel frattempo “Le società tecnologiche erano lì in agguato, pronte a diventare la biblioteca, la memoria, la personalità di ognuno”.  

Le considerazioni della Wiener sono di forte attualità. Nonostante la fiducia con cui affidiamo alla rete i nostri ricordi e i nostri segreti più intimi, ne siamo al tempo stesso diffidenti per il loro uso improprio e questo ci porta a rivalutare comportamenti e abitudini del passato. Del resto, già negli anni Settanta, ben prima della diffusione dei computer e quando il World Wide Web era ancora in sperimentazione, ma in cui il disagio verso la modernità era già avvertito, l’arte aveva compiuto un percorso simile, avviando ricerche e impiegando tecniche e materiali desueti. L’indagine sul concetto di tempo e sulla sua misura attraverso gli alberi e la terra, portata avanti da un artista del livello di Giuseppe Penone, di cui ho parlato  il 10 febbraio e su cui si sofferma il bellissimo libro di Salvatore Settis “Incursioni” (Feltrinelli,2020), può essere considerata parte di questa riflessione.

La mostra “Oltrenatura: l’artista come copula mundi” a cura di Davide Sarchioni, in corso alla galleria Marignana Arte  di Venezia fino al 6 febbraio prossimo, presenta quattro artisti che si collocano in questo alveo. Di Quayola ho già parlato in questo blog. Silvia Infranco  (Belluno-1982), di cui scrivo oggi, si caratterizza invece, per condurre una personale ricerca sul tempo e sulla memoria e per l’impiego nelle sue opere della cera utilizzata pura o impastata con ossidi colorati, bitume e terre. Un materiale fortemente connesso con i temi della sua indagine, per l’uso che se ne faceva nel mondo antico nella produzione di cosmetici e medicamenti; nella pittura a encausto, in cui veniva mescolata con pigmenti colorati così sottratti all’ossidazione; per realizzare statuette votive e plasmare maschere funerarie e per imbalsamare i corpi per breve tempo. La Infranco è rimasta affascinata dall’incontro con questa sostanza, avvenuto casualmente alcuni anni fa, nel corso di un lavoro per una scenografia teatrale, per le sensazioni tattili che provoca con la sua malleabilità e impressionabilità, per la sua capacità di trattenere e restituire le tracce delle azioni che si compiono su di essa, per l’energia che trasmette. Per quanto soggetta a scioglimento a una certa temperatura, motivo per cui le opere realizzate con essa nell’antichità si sono scarsamente conservate, si tratta di un materiale che la rassicura e che le fornisce quasi un conforto fisico.

Quest’artista ha già al suo attivo numerosi cicli di lavori rappresentativi della sua ricerca. Le Kenotipie, volumi lignei in cui le tracce di bitume penetrato nei segni incisi sulla superficie incerata e visibili attraverso ulteriori strati di cera, sono simili a segnali geologici di altre ere. I Tracciati, fogli di carta incerata su un verso che vengono sottoposti a cicli di piegatura, immersione in acqua in cui sono stati sciolti terre, ossidi, pigmenti e poi a stiratura fino a creare delle affascinanti mappe geografiche o astrali di luoghi ignoti del passato o del futuro. Le Melìe, piccole sfere in creta che coprono uno scheletro di ferro immerso nella cera fusa per poi essere cosparse di ossidi e pigmenti, apparendo simili a madrepore fossili.

Nella mostra in corso a Venezia sono invece esposte delle Teche Entomologiche, in cui la cera è impiegata per proteggere e conservare oggetti vegetali raccolti dall’artista; delle Metaforme, veline di spolveri di vegetali sovrapposti e sigillati poi dalla cera e un Herbaria, una grande tavola coperta da strati di cera unita a ossidi colorati che imprigiona le immagini di un erbario medievale.  

Dopo aver osservato le opere e parlato con l’artista, mi sono interrogato su quale sia il pensiero che le unisce e da dove esso scaturisca. Certo l’interesse di Silvia Infranco per il tempo e per la necessità di trattenere la memoria è evidente: “Il tempo mi affascina e mi turba, il mondo tecnologico è pervasivo e porta dimenticanza e perdita di memoria. L’uso di materiali tangibili che lo travalicano può rappresentare un tentativo di superamento della sua prevalente a-corporeità che è ancora di più soggetta ad oblio”. In questo senso, i materiali impiegati: la cera, l’acqua, i pigmenti, gli ossidi e le terre sono espressione e memento delle trasformazioni che il mondo subisce e della temporalità della realtà. Prendendo a prestito una frase di Germano Celant su Penone, citata nel libro di Settis, essi vengono “trasformati in entità creative, dove il momento creativo -il fatto ad arte- si coniuga con l’evento naturale” non in senso metaforico ma letterale: “la metamorfosi della materia durante il lavoro dell’artista comporta l’identificazione tra uomo e natura, tra soggetto e oggetto” dice Settis.

L’artista è quindi un archeologo oltre che un demiurgo, non è colui che va oltre-natura ma colui che riscopre qualcosa che esiste già nella natura, nel mondo e per questo deve esserne rispettoso. A me sembra quindi che la Infranco, nel rifare a ritroso il lavoro del tempo, nello scomporre, disgregare, conservare ciò che ha trovato una sua forma definitiva, voglia suggerirci l’affascinante ipotesi che questi materiali così antichi possiedano una memoria che appartiene alla materia, come se gli atomi che li compongono avessero vissuto anche in epoche diverse, avessero ognuno una sua storia, tracce di una memoria del mondo che lei, parte dello stesso, fa affiorare.   

  • Silvia Infranco-Porifera-metaforma V, Ctenactis-metaforma I, Ctenactis-metaforma II installation view, “TEMPUS DEFLUIT IMAGO LATET (perchè non voglio dimenticare), Marignana Arte, Venezia, curata da Marina Dacci (ph. Enrico Fiorese)
  • Silvia Infranco-Tracciati, 2015, pigmenti ossidi e bitume su carta, cm 146x97 (ph. Melissa Cecchini) (dettaglio)
  • Silvia Infranco- Asportazione, 2019, bitume drupe e cera su tavola, cm 21x21 (ph. Enrico Fiorese) (dettaglio)
  • Silvia Infranco-Melìa, 2020, pigmenti ossidi bitume cera argilla ferro, diametro 20 cm (ph. Silvia Longhi)
  • Silvia Infranco-Melìa, 2018, pigmenti creta cera ferro, cm 40X30X30 (ph. Melissa Cecchini)
  • Silvia Infranco-Idroforìa, 2018, pigmenti ossidi cera su tavola, cm 130x100 (ph. Melissa Cecchini)
  • Silvia Infranco-Kenotipie installation view, “VIE DI DIALOGO/6, CaCO3-Silvia Infranco”, Museo della Città, Ala Nuova, Rimini, curata da Claudia Collina e Massimo Pulini (ph. Melissa Cecchini)
  • Silvia Infranco-Tracciati, 2014, pigmenti ossidi bitumi su carta, cm 98×74,5 (ph. Silvia Longhi)

Abstract

In an increasingly technological world, Silvia Infranco (Belluno-1982) is characterized by conducting a personal research on time and memory and for the use in her works of pure wax used or mixed with colored oxides, bitumen and earth. A material strongly connected with the themes of its investigation, for the use it was made in the ancient world in the production of cosmetics and medications; in the encaustic painting, in which it was mixed with colored pigments thus subtracted from oxidation; to shape votive statuettes and to make funerary masks and to embalm the bodies for a short time and that today returns to be an expression and a reminder of the transformations that the world undergoes and the temporality of reality.

      


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